Parola all’artista

Testi, presentazione e discorsi ad opera di Paolo Annibali

Quello che so

Chine su carta

Testo di presentazione mostra “Quello che so” Fabriano 2020

Non so che cosa mi abbia trascinato fin qui, fino alla soglia dell’esistenza nella quale gran parte delle cose è diventata opaca fino ad essere indecifrabile. Ricordi, amicizie, amori, con l’età e la distanza, non appena mi inoltro lungo le vie dell’anima, una confusione adolescenziale pare domini su tutto. Sento ancora vivo il periodo dell’adolescenza da dove attingo spesso le idee per il mio lavoro attuale. Penso: potevo essere qualsiasi cosa, potevo intraprendere qualsiasi strada, ero in mare aperto! Ora gli orizzonti sono più brevi, e mi accorgo che la scelta dell’arte è stata la più impervia, ma anche la più necessaria.

Oggi il mio lavoro è per me come un legno a cui un naufrago riesce ad aggrapparsi. L’arte è la mia preghiera quotidiana, un affannoso dialogo con me stesso, una continua ricerca nelle piaghe della mia esistenza. L’artista non è un prediletto della vita, ma è chiamato, come tutti, alle tribolazioni quotidiane: fare e disfare con costante insoddisfazione, ogni giorno chiedersi: chi me lo fa fare? L’arte pretende un continuo duello, una fede incrollabile nelle proprie capacità, una grande disciplina. Non è permesso fermarsi, si rischia una crisi di identità e di motivazioni. L’arte impone fedeltà.

Più che mai, penso al mondo classico non come ad un eden malinconicamente perduto, ma come luogo del ritorno al nostro essere più profondo. Certo oggi non sono più proponibili quelle forme storiche e nemmeno l’ethos che le hanno generate, ma in me rimane ancora quella severità di intenti, il rigore formale, tutto ciò che possiamo chiamare i valori essenziali dell’opera d’arte.

E’ evidente che questa è una mia visione dell’arte, non so quanto condivisibile, ma è anche vero, che in tempi così complessi, ognuno di noi è chiamato ad una maggiore sobrietà e rigore.

Pensando a quello che sono, quello che negli anni ho visto, conosciuto e imparato, cerco di essere più essenziale, come se con l’età avessi abbassato i toni, ridotto i formati delle opere, provato una sorta di ritrosia nel comportamento, nei disegni e nelle sculture.

Queste mie ultime opere testimoniano questo mio attuale momento, quello che io sento, in un tempo di bilanci. Un’epoca lenta.

I disegni cercano di catturare lo sguardo di un benevolo osservatore, invitandolo alla lentezza, con uno sguardo di un volto che interroga lo spettatore sul senso della sua esistenza, con nature morte che raccontano l’ingiuria del tempo o l’ansia del vivere quotidiano: alberi dimenticati nella sospesa speranza dell’arrivo della primavera.

Ripensando alla mia carriera non mi sento di manifestare un tributo particolare ad un artista, attuale o del passato, che abbia contribuito alla mia formazione. Le tante figure che ho amato e sicuramente amo, sono ora tutte sfocate dal tempo, ma fanno sempre parte integrante del mio essere. Forse quello che ha più condizionato il mio lavoro è stata l’esperienza del dolore: al suo apparire tutto è stato più affannoso, scandito dai tempi della malattia alla ricerca di una sofferta bellezza.

Potrei dire che tutto questo è: quello che so.

Paolo Annibali

Un monumento al nulla

Testo mostra “Dirà l’argilla” Ancona 2014

Come alla fine dell’estate le giornate appaiono sempre più brevi, così questo mio ultimo tempo è segnato da un senso di inafferrabile accelerazione. Essere sempre in ritardo, giornate inconcludenti, sono costanti della percezione emotiva del mio tempo, che solo minimamente l’elenco razionale di quello che realizzo riesce a mitigare.

Le mie giornate sono condotte dal rigore della scultura che, disciplina non docile, detta i ritmi del fare. Improvvisare è impossibile, la materia impone conoscenza dei procedimenti, calcolo,…; più che scultore mi sento un costruttore. L’argilla, così apparentemente docile alle carezze delle dita, richiede profonda conoscenza degli spessori, dei ritiri…, pena un esito fallimentare. L’argilla non è solo l’arte del porre, ma anche della pressione, la costruzione viene anche dall’interno. Le sculture in terracotta sembrano prendere vita dalla cavità interna.

Onestamente non so perché, malgrado la fragilità delle mie mani segnate dal tempo, -forse per sfida?-, cerco nella scultura una dimensione anacronisticamente solenne. Le mie opere nascono sempre in sordina: all’inizio sono contenute in palmo di mano, per assumere via via la concretezza di forme molto articolate.

Sento molto l’assenza di quel comune sentire che ha segnato gli anni della mia formazione; sento molto l’assenza di appartenere e condividere quelle idee che lasciavano intravedere un mondo diverso. L’età adulta è segnata dalla moltitudine di problemi che la complessità del mondo contemporaneo  sottopone e per la quale mi sento spesso inadeguato.

Non ho mai manifestato un interesse malinconico per il mondo classico, nemmeno per la fascinosa galassia degli dei ed eroi greci; quello che più mi colpisce è il sentimento della fine di quel mondo che ambiva alla perfezione. Dove sono finiti quegli dei che, scomparendo, hanno lasciato vestigia così grandiose?  Fedeli ormai orfani, a quali santuari avrebbero offerto i loro doni? Sarà stato sicuramente un graduale abbandono, i templi lentamente trascurati si svuotavano di presenze e di senso. Sostituiti da luoghi e da religioni più evolute, non offrivano più quel recinto sacro, quel luogo di identità collettiva.

Ho cercato di creare una serie di sculture che evocassero l’apparato decorativo di un tempio: le sculture frontonali, le metope, gli acroteri. Sculture senza tempio, senza l’architettura che avrebbe dovuto accoglierle. Si intuisce dalle posture, dalle storiette dei teatrini (più che metope sembrano presepi), un racconto senza né miti, né eroi, in cui la mancanza del luogo, nell’incertezza dei gesti e nell’inutilità degli sguardi, diventa assenza di un possibile destino.

L’uso della terracotta più che la scultura greca, ricorda la fragilità di quella etrusca, dove la vulnerabilità dell’esistenza era regolata da un senso oscuro della fortuna.

E’ inutile. Nonostante la volontà di dominare consapevolmente l’opera, questa sceglie sempre una sua via, come un oracolo offre risposte diverse alle attese. Nonostante il senso di provvisorietà che avrei voluto raccontare con tutti i personaggi, le cinque sculture del frontone hanno assunto la fissità e la solennità di una forma assoluta di esistenza cristallizzata.

Un monumento al nulla.

La disciplina dello sguardo

Testo di presentazione mostra “La disciplina dello sguardo” San Benedetto del Tronto 2016
“Sta sempre a disegnare!”- Era la frase ricorrente di mia madre alle sue amiche, quando da bambino mi vedeva di continuo riempire album e temperare matite. Non pensavo al talento, tantomeno ad una professione, era ovvio, ma il segno misterioso lasciato dalla matita era sempre appagante, permetteva di figurare cose e desideri, altrimenti destinati a rimanere soltanto nei miei pensieri. Poi con il tempo, la scuola, tutto si affievolì fino a diventare uno dei tanti ricordi, spesso favolosi, della mia infanzia.

Ma le occasioni, spesso, concedono prove d’appello, prospettando possibilità inattese di riannodare percorsi interrotti. Ma nell’adolescenza tutto è più confuso, quegli antichi desideri si infrangevano contro tecniche che richiedevano conoscenza, esercizio e soprattutto una presuntuosa fede in me stesso.

Ne è passato di tempo, ma il disegno è rimasto nei miei pensieri non come suddito di altre discipline, ma ha mantenuto, come nelle origini, la finitezza e l’autonomia di opera conclusa in sé. Infatti non progetto mai una scultura, anche monumentale, attraverso il disegno; la progettazione plastica avviene sempre con le stesse tecniche e materiali dell’opera finita.

Ho sempre riservato al disegno un ruolo primario, quasi un compagno di viaggio che offrendosi in maniera arrendevole, rende visibili le trame che attraversano la mia mente.

Certo la scultura è fatica, la materia richiede un duello fisico, per essere domata o forse da essa domati. Il disegno, o meglio il disegno a china, non vuole fisicità, ma segni tracciati in punta di fioretto. Basta poggiare la penna ed è fatta.

Così mi perdo negli intrecci, quasi a immobilizzare la vita di sguardi, figure, cose, in una ragnatela di segni. E nel sapiente silenzio dell’esecuzione, nei giorni che passo a restituire un decoro di un vestito o una ciocca di capelli, il disegno diventa un’accorata preghiera, un rosario le cui perle sono gli infiniti e ordinati segni che traccio sul foglio.

Le tante figure che descrivo, di colpo si animano, mi guardano chiedendo il perché del loro esistere. “E’ il destino che vi ha voluto così!”- Sono le ore che ho passato con voi, la gioia e la fatica, la fede e il desiderio che mi avete regalato. E’ il destino degli infiniti sguardi che ho visto e ricordo, gli anni che ho passato e che passo non nel virtuoso esercizio del disegno, ma nella ben più difficile DISCIPLINA DELLO SGUARDO.

Paolo Annibali

Parola all’artista

Testi, presentazione e discorsi ad opera di Paolo Annibali

Quello che so

Chine su carta

Testo di presentazione mostra “Quello che so” Fabriano 2020

Non so che cosa mi abbia trascinato fin qui, fino alla soglia dell’esistenza nella quale gran parte delle cose è diventata opaca fino ad essere indecifrabile. Ricordi, amicizie, amori, con l’età e la distanza, non appena mi inoltro lungo le vie dell’anima, una confusione adolescenziale pare domini su tutto. Sento ancora vivo il periodo dell’adolescenza da dove attingo spesso le idee per il mio lavoro attuale. Penso: potevo essere qualsiasi cosa, potevo intraprendere qualsiasi strada, ero in mare aperto! Ora gli orizzonti sono più brevi, e mi accorgo che la scelta dell’arte è stata la più impervia, ma anche la più necessaria.

Oggi il mio lavoro è per me come un legno a cui un naufrago riesce ad aggrapparsi. L’arte è la mia preghiera quotidiana, un affannoso dialogo con me stesso, una continua ricerca nelle piaghe della mia esistenza. L’artista non è un prediletto della vita, ma è chiamato, come tutti, alle tribolazioni quotidiane: fare e disfare con costante insoddisfazione, ogni giorno chiedersi: chi me lo fa fare? L’arte pretende un continuo duello, una fede incrollabile nelle proprie capacità, una grande disciplina. Non è permesso fermarsi, si rischia una crisi di identità e di motivazioni. L’arte impone fedeltà.

Più che mai, penso al mondo classico non come ad un eden malinconicamente perduto, ma come luogo del ritorno al nostro essere più profondo. Certo oggi non sono più proponibili quelle forme storiche e nemmeno l’ethos che le hanno generate, ma in me rimane ancora quella severità di intenti, il rigore formale, tutto ciò che possiamo chiamare i valori essenziali dell’opera d’arte.

E’ evidente che questa è una mia visione dell’arte, non so quanto condivisibile, ma è anche vero, che in tempi così complessi, ognuno di noi è chiamato ad una maggiore sobrietà e rigore.

Pensando a quello che sono, quello che negli anni ho visto, conosciuto e imparato, cerco di essere più essenziale, come se con l’età avessi abbassato i toni, ridotto i formati delle opere, provato una sorta di ritrosia nel comportamento, nei disegni e nelle sculture.

Queste mie ultime opere testimoniano questo mio attuale momento, quello che io sento, in un tempo di bilanci. Un’epoca lenta.

I disegni cercano di catturare lo sguardo di un benevolo osservatore, invitandolo alla lentezza, con uno sguardo di un volto che interroga lo spettatore sul senso della sua esistenza, con nature morte che raccontano l’ingiuria del tempo o l’ansia del vivere quotidiano: alberi dimenticati nella sospesa speranza dell’arrivo della primavera.

Ripensando alla mia carriera non mi sento di manifestare un tributo particolare ad un artista, attuale o del passato, che abbia contribuito alla mia formazione. Le tante figure che ho amato e sicuramente amo, sono ora tutte sfocate dal tempo, ma fanno sempre parte integrante del mio essere. Forse quello che ha più condizionato il mio lavoro è stata l’esperienza del dolore: al suo apparire tutto è stato più affannoso, scandito dai tempi della malattia alla ricerca di una sofferta bellezza.

Potrei dire che tutto questo è: quello che so.

Paolo Annibali

Un monumento al nulla

Testo mostra “Dirà l’argilla” Ancona 2014

Come alla fine dell’estate le giornate appaiono sempre più brevi, così questo mio ultimo tempo è segnato da un senso di inafferrabile accelerazione. Essere sempre in ritardo, giornate inconcludenti, sono costanti della percezione emotiva del mio tempo, che solo minimamente l’elenco razionale di quello che realizzo riesce a mitigare.

Le mie giornate sono condotte dal rigore della scultura che, disciplina non docile, detta i ritmi del fare. Improvvisare è impossibile, la materia impone conoscenza dei procedimenti, calcolo,…; più che scultore mi sento un costruttore. L’argilla, così apparentemente docile alle carezze delle dita, richiede profonda conoscenza degli spessori, dei ritiri…, pena un esito fallimentare. L’argilla non è solo l’arte del porre, ma anche della pressione, la costruzione viene anche dall’interno. Le sculture in terracotta sembrano prendere vita dalla cavità interna.

Onestamente non so perché, malgrado la fragilità delle mie mani segnate dal tempo, -forse per sfida?-, cerco nella scultura una dimensione anacronisticamente solenne. Le mie opere nascono sempre in sordina: all’inizio sono contenute in palmo di mano, per assumere via via la concretezza di forme molto articolate.

Sento molto l’assenza di quel comune sentire che ha segnato gli anni della mia formazione; sento molto l’assenza di appartenere e condividere quelle idee che lasciavano intravedere un mondo diverso. L’età adulta è segnata dalla moltitudine di problemi che la complessità del mondo contemporaneo  sottopone e per la quale mi sento spesso inadeguato.

Non ho mai manifestato un interesse malinconico per il mondo classico, nemmeno per la fascinosa galassia degli dei ed eroi greci; quello che più mi colpisce è il sentimento della fine di quel mondo che ambiva alla perfezione. Dove sono finiti quegli dei che, scomparendo, hanno lasciato vestigia così grandiose?  Fedeli ormai orfani, a quali santuari avrebbero offerto i loro doni? Sarà stato sicuramente un graduale abbandono, i templi lentamente trascurati si svuotavano di presenze e di senso. Sostituiti da luoghi e da religioni più evolute, non offrivano più quel recinto sacro, quel luogo di identità collettiva.

Ho cercato di creare una serie di sculture che evocassero l’apparato decorativo di un tempio: le sculture frontonali, le metope, gli acroteri. Sculture senza tempio, senza l’architettura che avrebbe dovuto accoglierle. Si intuisce dalle posture, dalle storiette dei teatrini (più che metope sembrano presepi), un racconto senza né miti, né eroi, in cui la mancanza del luogo, nell’incertezza dei gesti e nell’inutilità degli sguardi, diventa assenza di un possibile destino.

L’uso della terracotta più che la scultura greca, ricorda la fragilità di quella etrusca, dove la vulnerabilità dell’esistenza era regolata da un senso oscuro della fortuna.

E’ inutile. Nonostante la volontà di dominare consapevolmente l’opera, questa sceglie sempre una sua via, come un oracolo offre risposte diverse alle attese. Nonostante il senso di provvisorietà che avrei voluto raccontare con tutti i personaggi, le cinque sculture del frontone hanno assunto la fissità e la solennità di una forma assoluta di esistenza cristallizzata.

Un monumento al nulla.

La disciplina dello sguardo

Testo di presentazione mostra “La disciplina dello sguardo” San Benedetto del Tronto 2016
“Sta sempre a disegnare!”- Era la frase ricorrente di mia madre alle sue amiche, quando da bambino mi vedeva di continuo riempire album e temperare matite. Non pensavo al talento, tantomeno ad una professione, era ovvio, ma il segno misterioso lasciato dalla matita era sempre appagante, permetteva di figurare cose e desideri, altrimenti destinati a rimanere soltanto nei miei pensieri. Poi con il tempo, la scuola, tutto si affievolì fino a diventare uno dei tanti ricordi, spesso favolosi, della mia infanzia.

Ma le occasioni, spesso, concedono prove d’appello, prospettando possibilità inattese di riannodare percorsi interrotti. Ma nell’adolescenza tutto è più confuso, quegli antichi desideri si infrangevano contro tecniche che richiedevano conoscenza, esercizio e soprattutto una presuntuosa fede in me stesso.

Ne è passato di tempo, ma il disegno è rimasto nei miei pensieri non come suddito di altre discipline, ma ha mantenuto, come nelle origini, la finitezza e l’autonomia di opera conclusa in sé. Infatti non progetto mai una scultura, anche monumentale, attraverso il disegno; la progettazione plastica avviene sempre con le stesse tecniche e materiali dell’opera finita.

Ho sempre riservato al disegno un ruolo primario, quasi un compagno di viaggio che offrendosi in maniera arrendevole, rende visibili le trame che attraversano la mia mente.

Certo la scultura è fatica, la materia richiede un duello fisico, per essere domata o forse da essa domati. Il disegno, o meglio il disegno a china, non vuole fisicità, ma segni tracciati in punta di fioretto. Basta poggiare la penna ed è fatta.

Così mi perdo negli intrecci, quasi a immobilizzare la vita di sguardi, figure, cose, in una ragnatela di segni. E nel sapiente silenzio dell’esecuzione, nei giorni che passo a restituire un decoro di un vestito o una ciocca di capelli, il disegno diventa un’accorata preghiera, un rosario le cui perle sono gli infiniti e ordinati segni che traccio sul foglio.

Le tante figure che descrivo, di colpo si animano, mi guardano chiedendo il perché del loro esistere. “E’ il destino che vi ha voluto così!”- Sono le ore che ho passato con voi, la gioia e la fatica, la fede e il desiderio che mi avete regalato. E’ il destino degli infiniti sguardi che ho visto e ricordo, gli anni che ho passato e che passo non nel virtuoso esercizio del disegno, ma nella ben più difficile DISCIPLINA DELLO SGUARDO.

Paolo Annibali