Sculture religiose di paolo annibali. Rilievi appassionati in componimenti geometrici.
di Carlo Chenis
Operando sulle tre dimensioni Paolo Annibali inventa forme scultoree il cui fulgore sacrale è trattenuto dall’ordine cartesiano. Fascino e mistero delle sovreminenti realtà spirituali trovano figura nel contrasto paradossale tra reticolo compositivo e azione scenica, quasi a sintetizzare l’orthotes, cioè la correttezza enunciativa, con l’aletheia, cioè lo svelarsi veritativo. Il Maestro porta in icona l’inconciliabilità redentivamente conciliata dell’incarnazione cristiana, grazie alla quale le anguste strutture dell’intuizione umana colgono per divino beneplacito l’ineffabilità dell’universo spirituale, aprendo l’itinerarium mentis in Deum. Limite e infinito si coniugano simbolicamente nello splendore artistico, così che nel limite espresso si specchia l’infinito inesprimibile. Il rigore geometrico degli schemi composivi si fa allora metafora dell’ordine intrinseco insito nella creazione; l’esuberanza figurativa dell’epopea religiosa si fa allora simbolo dell’appassionata condiscendenza manifestata dal Creatore. Per questo l’ordito geometrico reiterato dal Maestro non riesce a contenere del tutto l’azione sacrale, anche se questa dà ragione vitale a quello che si fa simbolo di armonia escatologica.
Dell’Annibali scultore in termini cristiani sono da menzionare, soprattutto, i numerosi portali di chiese, laddove è evincibile una poetica religiosa fondata sul paradosso formale ad emblema della coincidentia oppositorum. La sua scultura è ordinata e rapida, descrittiva e mistica, essenziale e ridondate. La porta diventa occasione per esternare tanto l’interiorità del proprio animo quanto quella dell’edificio cultuale. È il Maestro stesso ad inoltrarsi nelle regioni impervie e fascinose della Tradizione cristiana, perché attratto dal soprannaturale che va svolgendo iconograficamente, così da auspicare per altri le medesime esperienze. Poche volte opera all’interno delle chiese con figure santorali e arredi cultuali, quasi sempre indugia all’esterno di tali edifici, offrendo ai «vicini» la memoria del culto abituale e ai «lontani» il pathos dell’anelito religioso.
Annibali coglie il potere simbolico e sacramentale della porta, riacquisendo per sé e per gli altri il senso religioso dell’esistenza, sebbene nel dubbio della ricerca personale e nella sofferenza del processo artistico. Quale simbolo di Cristo, la porta iconizza la Chiesa sua diletta sposa, così da configurarne il corpo mistico e da annunciare i misteri cristiani. Da qui la scaturigine dell’invenzione artistica del Maestro che dà vita ad una scultura narrativa sempre di matrice biblico-ecclesiale, raramente, di sapore encomiastico-decorativo. Coglie come la porta sia elemento peculiare di intensa suggestione artistica e di doviziosa pregnanza spirituale, gestendola a modo di diaframma metaforico tra profano e sacro, fino a risolvere i richiami profani in moniti religiosi.
Spigolando nelle opere di Annibali l’abbondante produzione di portali per chiese, si possono campionare quelli per la Parrocchia di San Giovanni Battista Decollato in Fiesole (2002-2003) e quelli per la Cattedrale di Iesi (2002-204).
Portale per la Cattedrale di Iesi
La porta in bronzo per la Cattedrale di Iesi si estende per 22 metri quadrati di superficie. In essa compaiono circa 150 figure, pressoché modellate a tutto tondo, così da infondere all’impianto forza plastica e vigore scultoreo. Quanto figurato da Annibali è ambivalente. Può essere interpretato come narrazione storica di eventi locali disarticolati; può essere trasfigurato in epopea religiosa di momenti ecclesiali articolati. La ridondanza di riferimenti localistici più che confondere la lettura del portale stimola a ordinare accadimenti per sé affastellati su un ordito cristologico, laddove le luci e le ombre delle presenze umane trovano segno redentivo. La scelta ermeneutica è, pertanto, affidata al fruitore, che può ammirare impresse nel bronzo pagine di ordinario fasto cittadino e reliquie del prodigioso «eventum salutis».
L’elaborato simbolico è di difficile decodificazione, poiché il persistente richiamo alle Scritture, alla Tradizione e alla storia, genera un intreccio iconologico complesso. I misteri incornicianti a latere il portale seguono liberamente lo schema proposto da Giovanni Paolo II per il pio esercizio del Santo Rosario. Numi tutelari sono, invece, le figure dei santi che hanno conformato la loro esistenza a Cristo meritando il premio celeste.
L’iconografia scolpita nella cornice delle ante dà senso e forza all’intero percorso, conferendo alla porta valore iniziatico e benedizionale. Da qui prende significato la parte centrale, marcatamente ecclesiologica. Il Maestro presenta la Chiesa nella sua veste escatologica e peregrinate. Si staglia la Chiesa dei santi gloriosi, chiamati ad intercedere per la comunità cristiana che è in Jesi. Si evidenziano i personaggi illustri della civita jesina, consolidati in parte delle otto formelle accorpate al centro e nelle due formelle inferiori. Si dà encomio alla vita ecclesiale universale e locale, offrendo le due formelle superiori e due delle piccole formelle nel quadro centrale di destra.
Per la sua fattura forte e lineare, moderna e citazionista, immediata e ieratica, questo portale di Annibali è elemento di suggestione che impreziosisce la semplice facciata del sacro edificio. Nella sua severità arcaizzante è richiamo pristino all’impianto romanico della Cattedrale. Nella sua espressività frizzante è segno eloquente dell’attuale ritorno alla figura. La composizione è ben temperata per il suo distinguersi ordinato mediante tre livelli scultorei, inseriti in aggetto o in rientranza su una lastra bronzea piana. Si possono perciò individuare il piano della «cornice seriale», quello delle «sculture assolute» e quello degli «scavi reticolari». Tali piani suggeriscono diversi livelli iconologici, anche se questi non sempre corrispondono appieno all’ordito formale dell’impianto.
Piano dato dalla «cornice seriale». Questa sezione del portale, dedicata ai misteri di Cristo, è strutturata in formelle quadrangolari aperte verso l’interno. La sistemazione scenica ben si addice per dare forza alla porta attraverso la costolatura esterna e i setti separatori. Suggestiva è l’organizzazione prospettica ottenuta attraverso un piano inclinato triangolare in fuga verso l’esterno e progressivamente ribassato nel correre delle scene dal basso verso l’alto, così da originare un sistema simmetrico e ascensionale. Patente appare il richiamo a soluzioni preprospettiche medievali, anche se Annibali marca con originalità il «punto dell’infinito», onde iconizzare il divino nel «segno» prospettico. Lo stesso piano di scena, nella sua doppia inclinazione triangolare (quella volumetrica e quella lineare), indica l’ascesi misterica, così che il pellegrinaggio in Cristo deve «scendere» tra i triboli del mondo fino alla definiva «ascesa» alla Gerusalemme del cielo. La mancanza di bordatura verso la parte centrale della porta suggerisce un’interpretazione anagogica volta a sottolineare come la «teoria» dei misteri strutturi la storia della salvezza, qui rappresentata nella «comunità dei santi»: quelli glorificati da Dio, quelli affidati alla misericordia di Dio, quelli pellegrinanti verso Dio. Oltre le figure in scultura, a completare il componimento sono infatti i fedeli che sostano, s’introducono, escono dalla porta della Cattedrale. Con la stessa impostazione formale, a compendio delle cornici laterali, sono i simboli degli evangelisti, siti due per parte quasi a formare idealmente il tetramorfo. Essi sono tra loro collegati dalla schiera degli angeli sita a coronamento sotto l’architrave, le cui campiture prospettiche sforano verso l’alto e verso l’esterno, onde rappresentare l’orizzonte infinito della dimensione eterna.
Piano dato dalle «sculture assolute». Si tratta di sculture libere che Annibali plasma a tutto tondo senza alcun contesto geometrico, così da risultare immerse in uno spazio assoluto e isolatamente sospese sul portale. Egregia soluzione che ipostatizza i santi nella gloria del cielo, evidenziandone, nel contempo, la loro intercessione sulla terra. Lo dimostrano i due patroni – san Settimio e san Floriano – in funzione di maniglioni. Sembrano simboleggiare l’aggrapparsi dei fedeli nel corso dei secoli ai tutori della Chiesa jesina per farsi aiutare nell’oltrepassare le soglie della Cattedrale. Sopra le ante centrali, in fattura più piccola, sono i santi Francesco e Romualdo, quali esemplari di totale abbandono in Dio. Queste quattro sculture, alloggiate in modo quadrangolare sul bronzo, imperniano la vita ecclesiale e la storia locale. I due ordini prospettici di grandezza, che Annibali ha conferito a tali sculture, creano da una parte l’effetto di avvicinamento del cielo alla vita dell’uomo e dall’altra il suo sconfinamento oltre la dimensione contingente. Le figure, distinguibili per i diversi attributi santorali, sono dinamicamente spatolate, laddove l’attimo fuggente dell’esserci immanente allude alla beatitudine della visione divina.
Piano dato dagli «scavi reticolari». Più affastellato è il piano dei sei riquadri a rilievo scavato. Dal punto di vista scultoreo essi rappresentano una felice soluzione che varia il sistema complessivo, rinforza l’ordine interno, dà spinta verticale alla porta. Ne deriva un impianto dove le sculture sospese in aggetto si alternano ai riquadri scolpiti a rientro, così da infondere alla porta un ritmo vigoroso e aggraziato. La minore dimensione dei riquadri mediani e la loro quadripartitura snellisce l’insieme, oltre a dare spinta ascensionale alle ante interne del portale. La soluzione è anche felice dal punto di vista iconologico, dal momento che in tali formelle a rientro sono raccontati i fasti della comunità cristiana jesina. L’incastonatura quadrangolare delle formelle dentro il portale commenta come la Chiesa deve essere fortemente radicata in Cristo e come la storia necessita di definitiva liberazione in Cristo. Nel contempo, personaggi illustri ed eventi ecclesiali avviano tra luci e ombre il ricapitolarsi di tutte le cose.
Portale per la Parrocchiale San Giovanni Battista Decollato di Fiesole
Il repertorio simbolico e narrativo, che caratterizza il programma iconografico di Annibali per il portale della Parrocchiale di San Giovanni Battista Decollato in Pian di Mugnone, s’imposta su ricorsi biblici, utilizzando simboli collaudati dalla tradizione con originali soluzioni interpretative ed efficaci composizioni plastiche. Tale portale bene si integra nelle ordinate architetture, risalenti agli anni ‘60, di Glauco Gresleri.
Il componimento scultoreo in due ante intere, che misurano complessivamente 320 cm di altezza e 200 cm di larghezza, è percorso su tre lati da un fregio perimetrale e all’interno da otto formelle. Il rilievo del fregio eccede sempre dalla quota della superficie bronzea, mentre quello più accentuato delle formelle emerge da un ribassamento di quota che si svasa verso il centro. Non essendo presente sul lato inferiore, il fregio enfatizza stipiti e architrave così da conferire verticalità all’impianto. Essendo fortemente accentuate, le formelle s’impongono con la loro narrazione, così da annunciare la dedicazione della chiesa edificio.
Il gioco chiaroscurale della patina accentua in profondità la scenografia, infondendo nei personaggi forza drammatica ed emergenza assoluta. Il «già e non ancora» nella vicenda terrena del Battista e nel vissuto cristiano dei fedeli è dato dalla tensione materica, la quale evidenzia la potenza del Precursore e il coraggio dei credenti. La superficie, nella parte centrale delle ante, è leggermente stondata, assecondando un regime prospettico, per cui cagiona una flessione percettiva verso l’interno. Inoltre, nella scenografia di quattro delle otto formelle, si reitera un segno architettonico specularmente convergente verso il centro che enfatizza l’intero sistema. Nelle altr, invece, la scena è spazialmente aperta anche se permane la svasatura del fondo verso l’interno.
Nei contenuti il fregio del portale di Annibali narra l’iter tribolato dell’uomo, il cui intrecciarsi di eventi, conduce verso la «gloria di Dio». L’«albero della vita», ingemmato dalla sofferenza e dalla testimonianza, inizia progressivamente a fiorire recando frutti di eterna beatitudine. Posto a cornice tale fregio determina tanto il contesto dell’esistenza umana, quanto quello della vicenda salvifica. Le scenografie che si aprono al suo interno appartengono a tale contesto e, nel contempo, lo fondano. Le storie del Precursore e della Chiesa pur incastonandosi tra gli accadimenti umani fuoriescono da essi, in quanto hanno matrice soprannaturale.
Se il fregio dichiara il paradigma esistenziale, le formelle narrano la vicenda religiosa. Annibali con efficaci e brachilogiche soluzioni descrive il vissuto del precursore. Il vigore del tratto scultoreo, la concisione dell’impianto scenografico, l’essenzialità dei personaggi rappresentati, bene si addicono per raccontare le gesta dell’ultimo profeta veterotestamentario e precursore del Signore. Quanto impresso nelle formelle di bronzo presenta la redenzione con i toni vigiliari di Giovanni Battista e riflette la Chiesa con quelli martirologici di testimoni locali. Le sei formelle superiori sono dedicate alla storia del Precursore; le due formelle inferiori a pastori di Fiesole. I personaggi umili e grandi che caratterizzano le scene centrate sul Battista sono accreditati dalla divina giustizia come qualificato «resto di Israele» e, pertanto, «porta» della redenzione. Gli altri personaggi diventano numi tutelari della locale testimonianza ecclesiale.
La lettura iconografica procede nel senso dello scrivere, da sinistra a destra, oltre che dall’alto in basso. Partendo dalla prima fila: a sinistra Annibali rappresenta la visione di Zaccaria nel tempio di Gerusalemme, in cui si annuncia la nascita di Giovanni; a destra propone la visitazione della vergine Maria a santa Elisabetta, dove Giovanni è riconosciuto primo adoratore del Messia. Nella seconda fila: a sinistra Giovanni è ritratto nel deserto, con abiti penitenziali e con atteggiamento predicatorio; a destra Gesù è battezzato nelle acque del Giordano da Giovanni, così da compiere le Scritture. Nella terza fila: a sinistra Salomè danza dinanzi ad Erode, innescando la vendetta della madre contro Giovanni; a destra Giovanni è decollato in carcere, così da concludere la sua missione. Il Maestro ripropone, poi, a risonanza dell’epopea offerta dal Battista, san Romolo, reale e leggendario capostipite della comunità fiesolana, e Mons. Berti, intrepido pastore e zelante missionario.
Nell’interpretazione del portale non si può trascurare il riferimento numerico, giocato sul numero otto delle formelle avente rimando cristologico, e sul numero sei delle scene sul Battista simbolizzante la creazione nella sua attesa di completamento redentivo. In tal modo, la lettura del portale permette di passare dalla storia archetipa del «resto di Israele», a quella attuale della Chiesa, invitando i fedeli a santificare lo scorrere del tempo con l’annuncio del vangelo. Il Maestro ha così metaforicamente fuso nel bronzo quanto la Chiesa desidera imprimere nell’animo di ogni credente.
Altri portali
In generale i portali di Annibali sono riconoscibili negli stilemi, ma originali nel componimento. Scolpisce nella lingua progressivamente acquisita, dove l’ossessione del rigore geometrico disciplina la passione della vicenda spirituale, onde stemperare l’uno nell’altra. Inventa in contesto, al fine di intuire il genius loci e di sintonizzarsi con la committenza locale. Alla narrazione biblica unisce sempre richiami localistici, dando figura alla Traditio Ecclesiae.
Nella Porta della misericordia per la Chiesa di San Filippo Neri in San Benedetto del Tronto (1995-1997) le misericordie si fanno provvidenza divina che vigila con occhio amorevole sulle umane res gestas, occhio attraverso cui si è scrutati dall’alto con ineffabile amore e grazie al quale si può penetrare nel mistero divino. Nell’opera il reticolo invade con fuga prospettica l’intero portale, anche se non tutte le formelle ospitano personaggi, onde lasciare il posto ad iscrizioni didascaliche. Rispetto ad opere successive questa presenta sapori primitivisti ed eccesso reticolare, così da esporre una tensione aurorale.
La Porta dello Spirito Santo per la Chiesa di San Pio X in San Benedetto del Tronto (1997-1999) coniuga episodi biblici, quali l’Ascensione, la Pentecoste, la Dormitio, ad episodi martiriali della Chiesa locale, annunciando come la disseminazione del vangelo debba risolversi in testimonianza esistenziale. Si tratta di sei formelle compattate in due pannelli verticali che s’appoggiano centralmente alla superficie liscia di ogni anta. Dall’alto dell’impianto, figurativamente più ammanierato, fuoriescono la Madonna e il Cristo, quali «codici ermeneutici» per interpretare l’intero sistema e per avvalorare la fede cattolica.
Compositivamente singolari sono i due portali per la Chiesa Regina pacis di Matelica (1999-2001) in bronzo su legno. Nella Porta Regina Pacis dominano figure sbozzate senza scenografia. Lunetta, pannelli, medaglioni ordiscono un unico componimento narrativo secondo cui sono le virtù a permettere il percorso verso la santità, così da tradurre nel vissuto ecclesiale la logica dell’incarnazione cristiana. Questa trova figura nella lunetta laddove, con rapidi stilemi classicheggianti, il Maestro plasma Annunciazione e Nascita. Nella Porta dell’Alleanza si reitera lo schema nell’ambito del quale si sviluppa una composizione di quattro pannelli tra loro accorpati e verticalmente scissi dalla cesura delle ante. In essi sono trattati temi salienti, sempre contrassegnati dalla presenza di personaggi che interloquiscono con Dio, così da mostrare come l’Altissimo entri in dialogo con l’umanità. I Progenitori, Noè, Abramo, Mosè, divengono perciò archetipi dell’eventum salutis. A commento allegorico sono figure angeliche borchiate in piccoli medaglioni di forte rilievo scultoreo.
Nella Porta di San Giacomo Maggiore per la Chiesa di San Jacopo in Tartiglia, Pratovecchio (2003-2004), la composizione delle figure è enfatica pur nello schematismo dell’ordito. La figura di Giacomo in foggia di apostolo pellegrino è apposta in congiunzione delle due ante su una base che fuoriesce a modo di piedestallo dalla sezionatura orizzontale delle formelle, così da sormontare la scena in modo scultoreo. Il resto delle formelle coniuga la devozione mariana nel titolo del Pilar a quelle di santi venerati in loco. Rispetto ad altre sue soluzioni, il Maestro enfatizza l’impianto facendo spumeggiare i ridotti e ridondanti elementi scenici, pressoché fusi con i panneggi dei personaggi.
Rilevante è il bozzetto del concorso sulla Porta del Rosario per la Patriarcale Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore in Urbe. Non trattandosi di una porta, bensì di un rilievo per un varco murato da analogare alle quattro porte viciniori, è risolto da Annibali a modo di scenografia illusionistica e rappresentativa. Il Maestro aggrazia un monumento, simulando, non tanto una finta porta, quanto un varco aperto. Da esso si dirige verso i credenti, solenne e premurosa, la Vergine Assunta, che acconciata da matrona è in atto di scendere su gradoni, nel mentre schiaccia la testa del serpente antico. Lo spazio s’inonda di luce in contrasto con la potente cornice da cui è circondato. Questa non è scandita da formelle, ma da ripieghi di panneggio, quasi a ricordare le bende sepolcrali, onde iconografare nella resurrezione del Cristo il senso del santo rosario. Gaudio, luce, dolore, gloria sono, dunque, misteri cristologici da meditare, pregare, contemplare con l’attenzione e l’intercessione di Maria. Un bel progetto, correttamente impostato sotto il profilo formale e contenutistico, che avrebbe dato risalto all’atrio della Basilica, aiutando il raccoglimento dei pellegrini.
Annibali s’inoltra, poi, nel luogo cultuale con l’ambone per la Cattedrale di Fiesole. Una scultura circolare che accoglie la simbologia cristologia del sepolcro vuoto da cui fuoriesce il Verbo divino. Il sudario si riversa all’esterno, avvolgendo solennemente l’intero corpo cilindrico. Dinanzi ad esso sono i simulacri degli evangelisti, mentre il lezionario va poggiato su una scultura a piano inclinato in forma di colomba, onde richiamare la presenza dello Spirito Santo nella proclamazione e nell’ascolto della Parola.
Fresca ed ilare è, invece, la scultura in terracotta effigiante San Giuseppe da Copertino. Il Santo delle numerose levitazioni e degli innumerevoli miracoli è colto all’improvviso in un movimento delle mani che pare ricordare un prestidigitatore. Da quel libricino digitato il Maestro sembra far uscire un’invocata grazia.
Nel complesso le sculture di destinazione religiosa presenti in catalogo enunciano con forza e semplicità il sacro cristiano, narrando quanto avviene tra Dio e l’uomo nella storia della salvezza e nella vita della Chiesa. Siffatta materia, artisticamente formata, prende perciò vita dal soprannaturale, in quanto racconta le verità della fede e stimola i credenti sulla via della santità. La severità formale e l’eleganza scultorea di quanto finora prodotto da Paolo Annibali sollecitano l’ascesi interiore, inducendo i fruitori al raccoglimento spirituale. La leggibilità delle figure esorta ad assimilare la narrazione, onde offrire alle attuali e future generazioni una diversa «biblia pauperum». Ne derivano moniti estetici per arginare relativismo comportamentale e indifferenza religiosa.
Fugaci Liturgie
di R. Bossaglia
01/02/2000
La scultura, fra tutte le espressioni artistiche, è da sempre legata all’esaltazione della persona, quando non alla sua celebrazione; una celebrazione che, a seconda dei casi, si fa anche santificazione, ma non nel senso di spiritualizzare la figura rendendola incorporea, bensì, al contrario, di un sublimare allegoricamente la sua fisicità. Sono considerazioni ovvie, ma che mi paiono opportune nell’aprire il discorso su un artista attuale, ben radicato nella cultura del suo tempo, ben consapevole della straordinaria vicenda che ha visto nel nostro secolo, e segnatamente in Italia, il fiorire di una produzione scultorea, anche e proprio nell’ambito figurativo (per intenderci non di linea astratta) , dalla qualità altissima; un artista dunque calato nel contemporaneo, ma all’interno di una cognizione di una sacralità dell’oggetto scultoreo che è di per sé fuori del tempo. Nel considerare la produzione di Annibali si individuano con chiarezza alle sue spalle, modelli espressivi di fondamentali maestri contemporanei – segnalerei soprattutto Arturo Martini e Pericle Fazzini – ; così come si avverte il riverbero della statuaria etrusca, ma proprio questo confronto con le radici culturali consente l’individuazione di una personalità autonoma, di una stretta coerenza con sé stessa, quotata a un’asciuttezza di linguaggio che si sposa nel medesimo tempo con una ritmica dinamicità. Ed è questo il tono dei suoi altorilievi, nelle porte realizzate alcuni anni or sono, dove l’azione, semplicemente simbolica dati i temi e la destinazione delle opere, è vissuta in una ripresa dall’alto, come su palcoscenici guardati dai piani alti del pubblico; ed è appunto azione, ma emblematicamente fissata nei suoi momenti cruciali. Già in queste opere Annibali, pur rispettando alcune convinzioni iconografiche legate al remoto storico delle vicende, è orientato a vestire i suoi personaggi con abiti moderni, onde sottolineare nei singoli episodi il permanere dei loro valori, etici e spirituali fuori del tempo. La spinta a riflettere sull’attualità e sul quotidiano si fa in lui via via sempre più forte: non tanto come indagine di tipo veristico, quanto come simbologia del significato esistenziale che ogni evento o gesto umano rivestono, e – come dice bene lo stesso artista, capace di un’esplicita teorizzazione del proprio operare – rendono l’uomo “interprete simbolico di una sacralità della vita”. Questo tipo di rappresentazione, questa imagerie volutamente povera e domestica prende appunto corpo in individui vestiti con abiti borghesi i quali, nella penultima produzione dell’artista, si inseriscono in asciutte scabre strutture di tipo architettonico. La padronanza della tecnica del cotto consente ad Annibali di mimare stoffa, legno, pietra e così via con leggerissime ma significative variazioni di effetti. E i suoi personaggi sono per la gran parte nell’attitudine di aprire spiragli verso il mistero, se vogliamo anche verso l’aldilà, dal momento che, talvolta, sul loro corpo di sostanza ponderale spuntano angeliche ali.
Ma non è questo ancora l’ultimo approdo della fantasia e della formula espressiva dell’artista che, in rigorosa fedeltà alla propria fisionomia, ha portato oltre il suo discorso sulla trasfigurazione simbolica della quotidianità. Le opere più recenti siano esse piccole terrecotte o siano bronzi dalle maggiori dimensioni, colgono sempre gli individui all’interno di un ambiente di vita; ma questa volta i tratti somatici sono più approfonditi e differenziati, l’abbigliamento puntualizzato nei particolari, e sottolineato nella sua stratificazione usuale anche dalle varietà automatiche; in qualche caso identifichiamo veri e propri ritratti, così come l’ambiente medesimo è identificato tramite arredi plausibili. Questo procedere verso una figurazione che sembra rievocare in qualche misura formule del cosiddetto “realismo esistenziale”, è tanto più suggestivo e spiazzante, in quanto non diminuisce bensì accentua i caratteri simbolici della composizione.
E dietro tutto ciò sia detto in conclusione – anche se può parere una banalità – c’è una padronanza professionale di alto livello; la semplicità, la sintesi, l’asciuttezza di linguaggio sono il risultato di una profonda dimestichezza con la manualità creativa. In essa si cala l’emozione esistenziale e diventa linguaggio.
Paolo Annibali.Un Decennio
di Flaminio Gualdoni
Il bilancio di un decennio d’opere di un artista non ancora cinquantenne come Paolo Annibali consente di metterne a fuoco identità e spessore al momento dell’avvio di maturità.
Non una mostra di bilancio, dunque, è questa, e piuttosto una verifica al momento cruciale che apre la stagione dell’acmé.
Annibali vi giunge con una personalità cospicua e forte, che ha negli anni evoluto da una vocazione precocemente delucidata sino a renderla mozione espressiva definitiva, intensa tanto quanto inflessibile.
Il tempo dei suoi esordi era quello in cui vicende come Transavanguardia e Neue Wilden affermavano disinvolture stilistiche e manipolazioni citatorie in un quadro di pensieri deboli e di estetismi d’epidermide. Annibali, tra i pochi, ha scelto di prendere avvio da un punto di partenza totalmente opposto, ispido ed eccentrico rispetto al dibattito artistico, ma a suo avviso non eludibile.
Era, la sua, la scelta d’un’arte di valori, un’arte motivata e capace di pronunciare parole alte uscendo dal torpore confidente dell’autoreferenza: un’arte di senso, un’arte etica, dunque.
Di conseguenza, era decidere di immettersi nel solco grande della tradizione, della disciplina più distillata, del senso antico del concepire l’immagine che non la vuole puro compiacimento visivo, non semplice gratificazione dello sguardo, ma gioco complesso di evocazioni e rimandi, la cui trama tutta chiamiamo storia dell’arte. Era guardare non ai momenti di frattura e disintegrazione dell’unità concettuale dell’opera, ma a quello della ricomposizione possibile, in nome di una fede nella “dotta mano” – così la indicava Vasari – che è fare sapendo e sapere facendo, nel senso di una continuità che, senza fratture, dall’antico giunge a noi.
Anche per Annibali valevano, da subito, le parole celebri di Igor Stravinskij secondo cui “la tradizione non la rispetto, io la amo”. Ed era una tradizione non anacronistica – beffardamente, proprio certi vacui bamboleggiamenti neoclassici erano, negli anni della sua crescita, considerati up to date – ma fermamente radicata nel tempo suo, nelle sue urgenze, nei dubbi, nelle interrogazioni.
In questa linea, di un’arte necessitata e fondata su valori, Annibali ha scelto di agire, da subito. Per conseguenza, all’arte sacra si è fondativamente rivolto, per affermarne la centralità in un clima culturale la cui crisi profonda si manifesta nel dissolversi dei valori estetici come sintomo del trascolorare dei valori etici.
Dire, con i latini, “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, non è fatto d’attualità. E’ un fatto. E’ il fatto.
Il resto son chiacchiere mondane e teatrini da supplemento culturale di magazine: cose, tutte, che è perdita di tempo inseguire.
Leggere il Novecento non come il secolo dell’avanguardia destruens, ma come il sentiero che fa risonare il senso del sacro da Georges Rouault a Gino Severini, da Henri Matisse a Marc Chagall, da Arturo Martini a Giacomo Manzù, da Mark Rothko a Louise Nevelson, da Lucio Fontana a Yves Klein, dunque sia in chi la forma classica preserva, sia in chi la metabolizza in forma nuova, non è porsi la questione del sacro come genere, ma quella di una fede nell’arte che è, per molti, fede tout court in un valore, in un’espressione che conosca ancora l’aroma di un fare, di un creare capace di rimontare alle ragioni prime dell’esistenza. Arte sacra, dunque, non perché dice di religione, ma perché s’avverte intimamente originata dal creare, dal mettere al mondo, dal farsi discorso di comunità e verità.
Inattuale, e alta, era d’altronde anche la scelta della scultura, sacrata per sua stessa atavica natura e votata a quella che in altro tempo mi è accaduto d’indicare come “sovrana inattualità”. Annibali tale scelta ha fatto da subito, e senza tentennamenti e compromessi, con l’oltranza e il rigore di chi non si ponga a priori questioni di ubi consistam nel sistema nominalistico dell’arte, ma segua piuttosto, a costo della marginalità, ciò che avverte come un dover essere.
E’ partito da Martini, l’allora giovane scultore. Dal Martini che s’andava allora riscoprendo, dopo le derive intellettuali della polemica figurare/astrarre, come l’autore che poneva fine alla stagione dell’estetica della statua e interrogava con violenza meravigliata l’anima stessa della scultura entro la materia. Dal Martini che dell’immagine faceva apparizione, flagranza d’un senso che da narrativo s’inoltrava nei corsi impervi del simbolico, del senso alto e definitivo.
Era la scultura come materia che si fa corpo, e come individuo plastico che si fa protagonista d’un narrare sintetico, sospeso, distillato d’una storia che vuole lo spazio in filigrana scenica per farsi situazione esemplare.
Le opere di Annibali si presentavano come brani essenziali di luogo, e condizioni essenziali dello stare della figura. Erano architettura e vuoto, presenza e inquietudine dell’altro. I suoi personaggi non esibivano, non narravano un accadimento, ma un’intensa e per certi versi introversa condizione psicologica, ritrovata in quel rapporto disagiato con lo spazio, in quel teatro di pose pudiche e sottilmente ambigue.
L’artista si è votato alla terracotta e al colore. La terra, perché il plasticare gli consentiva un rapporto con il formarsi del corpo plastico fatto di intimità e meditazioni, di tempi fisiologici di esecuzione a fronte di un approccio cauto e meditativo: il tempo del fare era per l’artista tempo di pensiero, di avvertimento lungo dell’emozione, di rimuginio intellettuale che era il passo genetico dell’opera, oltre ogni liturgia tecnica. Il colore, perché esso riprendeva, dal modello antico dell’arte medievale e da quello prossimo di artisti come Marino, la sensuosità antigraziosa di un’apparenza non sottomessa alle aspettative estetizzanti della bella statua, della bella forma.
Negli anni Annibali ha preservato quell’approccio di base, quello scambio diretto, emotivamente ravvicinato, con la materia in formazione, affrontando con continuità – sino a farne scelta pressoché esclusiva – il bronzo.
Il bronzo è la storia stessa della scultura europea, materia tanto sensibile e potente quanto incombente per l’ombra continua del retaggio storico, e retorico, ormai connaturato ad essa. Ma è, per l’artista, dimostrazione della volontà di non aggirare il confronto con l’identità sorgiva della scultura, di non sottrarsi alla responsabilità e al rischio della monumentalità.
Nella concezione delle opere, ciò ha significato rastremare con ancor più rigore gli elementi del suo processo significativo. Man mano eliminati gli accessori scenici della spazialità, la figura si è ritrovata sola a decidere di se stessa e dello spazio. Anche il colore, fattore di scarto concettuale e di contaminazione di lettura, si è riassorbito nella materia stessa, nelle superfici e nel loro lavorio luminoso.
Ne sono nate le figure degli ultimi anni, grumi, verrebbe da dire, d’un concentratissimo pensarsi al mondo con ragione e destino, nel rapporto con lo spazio che è insieme solitudine e forza dell’affermarsi esistere.
I personaggi che Annibali mette al mondo non affermano con arroganza il proprio diritto allo spazio. Nascono dall’interno, da un nucleo elaborante che è il momento della messa a fuoco sentimentale da parte dell’artista. Chiedono, e trovano, qualcosa da esprimere, meglio, qualcosa che valga la pena di esprimere.
E’ questo, per l’artista, il momento decisivo e dubitante del fare: movendo da una concezione non affermativa, non assertiva dell’immagine, egli non se ne fa demiurgo sicuro. Man mano che l’individuo plastico prende forma, l’artista instaura con esso una sorta di dialogo muto e serrato, fatto di interrogazioni ansiose, d’un continuo andirivieni tra un poter essere e un voler essere.
Per questo le sue figure non hanno l’enfasi di chi convoca a sé lo spazio e lo sguardo. Per questo, dichiarano con orgoglio dimesso il tormento del loro nascere.
Il corpo si dà allo spazio come presenza pericolante, testimone più che padrone del senso. Questo dice il suo assetto fatto di verticalità sempre lievemente declinanti, di pose in cui non senti l’espandersi sicuro della materia trionfante e sensuale, e piuttosto la pressione dello spazio e della luce che ne tormenta i volumi, li asciuga, li macera, quasi la figura avvertisse e offrisse a chi guarda la fatica, il dramma di avvenire al mondo.
Sono corpi abbigliati, quasi sempre. Perché sono specchi del nostro stesso essere alla storia, ma anche perché, dal punto di vista della resa concettuale, Annibali impedisce a se stesso di arroccarsi entro le certezze disciplinari del mestiere, di fare accademia della bellezza della forma che la tradizione e le sapienze di scuola gli hanno messo a disposizione.
Sono personaggi che sia vivano in prima persona la vicenda di cui portano l’impronta di senso, sia semplicemente vi assistano – caratteristica non banale di Annibali è porre spesso il fuoco significativo non nella figura, ma in ciò che non si vede e che noi avvertiamo attraverso la mediazione della figura, perché il suo è un narrare per sottrazioni – in qualche modo sempre la subiscono: se una rivelazione si dà, se una meraviglia è in atto, se un sentimento vibra, ciò che l’artista rappresenta è l’effetto che si verifica sul personaggio che egli crea.
In altri termini, egli va narrando una storia lunga e densa di cui l’individuo mai è protagonista, perché il nucleo della verità sta sempre fuori di esso, e noi ne percepiamo la ricerca, la fatica, il dubbio, l’errore, il viaggio, ma anche la volontà tenace di giungere a quella meta.
E’ cruciale osservare come diversamente dalla scultura architettonica dell’artista, in cui le figure sono per ragione retorica stessa personaggi immessi in una struttura narrativa, in un apparato comunque decifrabile, ancor più vivido si manifesti in questi pensieri d’atelier il valore dell’assenza, dell’estraneità del personaggio al centro del racconto. Se non rischiasse di apparire diminutivo o fuorviante, si potrebbe dire che è come se Annibali costruisse continuamente, da anni, figura dopo figura, un immenso e potente presepe in cui mancano la capanna e il Bambino, ma noi ne avvertissimo la centralità dall’intensità emotiva che si produce sui personaggi circostanti, gli anonimi nelle cui anime, comunque, la rivelazione si attua.
Per questo, credo, si può ben dire che l’artista concepisce queste opere come strumenti civili, etici, di un rituale dello sguardo che non può non pensarsi come comunitario, reagente e autenticante un idem sentire coagulato in un luogo ad alto gradiente simbolico. Per questo le scelte anche professionali di Annibali sono così atipiche, così sovente fuori luogo rispetto al cursus honorum che oggi si chiede a un artista. Per questo, soprattutto, la sua scultura è sempre e comunque sacra.
Anche quando egli non s’impegna nell’impresa prediletta dell’intervento architettonico, nel dialogo vivo con gli spazi e le figure della vita religiosa e della comunità, la sua non è – perché non può essere – scultura da camera, maquette, ornamento. Le sue opere chiedono un luogo e uno sguardo appropriati, si ritraggono al confronto con gli accessori mondani del vivere, non fanno famiglia con il panorama domestico.
Annibali è scultore per questo. Fare scultura è per lui, così come per la vicenda tutta dell’arte da cui discende, concepire individui altri rispetto a noi e all’ordinario. Altri, e dotati d’una radiante carica interna di senso.
La sua non è, per dire con le parole del dotto, phantastike techne, non vuole giocare al teatro delle apparenze e dei compiacimenti illusori. E’, all’opposto, eikastike, genera figure in cui alita il metafisico, che parlano di ciò che non si può vedere, sempre. Generare eikona, ancora, è possibile: ne è convinto Annibali, da sempre, e molti per fortuna con lui.
L’inattualità della sua scultura e in genere della scultura tutta che voglia dirsi tale è, al fondo, soprattutto determinata da questo punto, dalla discontinuità topica e storica di forme come queste rispetto a quanto, senza lo svolgersi minuto nel tempo e nei luoghi del vivere banale, semplicemente non sarebbe.
Arshile Gorky ha dipinto nel 1945 un quadro importante, intitolato The Unattainable. L’inaccessibile, l’irraggiungibile, è il dramma stesso della forma così come la parte più nobile e pensosa dell’avanguardia ha sperimentato. Tale irraggiungibiltà è connaturata all’idea stessa di forma laddove essa voglia ancora aver a che fare con una verità, con un senso non transitorio.
Per questo esiste l’arte stessa. Roger de Piles, nel Settecento, diceva che essa è vera perché è “in forza dell’effetto che essa produce che noi non possiamo fare a meno di avvicinarci, come se essa avesse qualcosa che ci vuole dire.”
Il punto è questo. C’è un’arte che ancora ha qualcosa che ci vuole dire. Annibali l’ha compreso da subito, e da anni, con passione feroce, è quanto va praticando.
“E queste sarebbero chiese?” – panorama, n° 3, 2008
di Camillo Langone
Bisogna citare anche i portali brulicanti che lo scultore Paolo Annibali sta disseminando nella provincia marchigiana e toscana, con gli angeli che volano, i santi che patiscono e i vescovi che benedicono. Sarei curioso di conoscere il motivo per cui questo artista sapiente, gran conoscitore dei segreti del bronzo, resta confinato in paesi e cittadine e non viene chiamato a Roma o a Milano. Troppo ortodosso? Non abbastanza dissacrante? Forse la sua vera colpa è quella di essere papalino. La riscossa dell’immagine nelle chiese cattoliche non si affida soltanto alla buona volontà dei singoli.
QUINTA TRIENNALE DI ARTE SACRA CONTEMPORANEA
di T. Carpentieri
Ed è ancora racconto con la “Porta di S. Giovanni Battista” il bozzetto bronzeo del portale della chiesa di Fiesole dedicata a San Giovanni Decollato, opera di Paolo Annibali, nel quale, avvalendosi di un impaginato di grande presa ed efficacia nel rispetto del percorso stesso della storia dell’arte e nell’attuazione di uno sviluppo secondo ritmi particolarmente efficaci, lo scultore costruisce e compone la storia della vita del Battista realizzando un’opera nella quale, strutturati in otto riquadri che giocano sulla profondità, chiusi nella loro geometria con una sorta di cornice costituita da simboli e immagini si alternano gli episodi e le figure che dialogano tra loro, rappresentando in maniera quanto mai sintetica la complessità e la singolarità di questo “santo”, l’unico, dopo Maria, ad essere ricordato dalla liturgia nel giorno della sua morte e della sua nascita. E l’opera manifesta appieno il significato del “Battesimo, porta della fede”, accentuandolo poi nella raffigurazione rappresentata, che senza alcuna difficoltà ci fa tornare alla mente le parole dell’Evangelista Giovanni: “io sono la porta, se uno entra per me sarà salvo” (G.V. 10,9)
Mariano Apa, 2008
di di Mariano Apa
Flaminio Gualdoni ricostruisce analiticamente e con respiro storiografico l’itinerario della cultura artistica di Paolo Annibali, nella recente monografia del 2007 per la grande antologica di San Benedetto del Tronto e di Roma. È una monografia che si pone equivalente all’altra, uscita nel 2005 in occasione dell’inaugurazione della Porta del Giubileo di Jesi, con gli importanti saggi di Armando Ginesi e di Mons. Carlo Chenis. Insieme a Gualdoni, ecco nella monografia del 2007 anche il bellissimo ed importante saggio di Mons. Carlo Chenis a cui si deve un’importante analisi dell’opera sacra di Annibali e, attraverso questo corpus di opere, si concretizza un saggio sulla metodologia dell’approccio all’arte sacra. Con Gualdoni e Chenis e con Ginesi e Chenis si proclama in Paolo Annibali una unità metodologica che rende giustizia alla cura storiografica con cui si affronta un’artista contemporaneo. Flaminio Gualdoni pone per Paolo Annibali la condizione della “verifica al momento cruciale” e di come la sua sia “un’arte di senso, un’arte etica”. Paolo Annibali, scrive gualdoni “è partito da Martini (…) dal Martini che dell’immagine faceva apparizione, flagranza di un senso che da narrativo si inoltrava nei corsi impervi del simbolico, del senso alto e definitivo. Era la scultura come materia che si fa corpo, e come individuo plastico che si fa protagonista di un narrare sintetico, sospeso, distillato d’una storia che vuole lo spazio in filigrana scenica per farsi situazione esemplare. Le opere di Annibali si presentavano come brani essenziali di luogo e come situazioni essenziali dello stare della figura. Erano architettura e vuoto, presenza e inquietudine dell’altro. I suoi personaggi non esibivano, non narravano un accadimento, ma un’intensa e per certi versi introversa condizione psicologica, ritrovata in quel rapporto disagiato con lo spazio”. Si deve ad Armando Ginesi la importante analisi della Porta del Giubileo per la citata Cattedrale di Jesi, dove si sistematizza un percorso critico coerentemente giunto alla piena maturità. Annibali si diploma all’Accademia di Macerata, con Trubbiani, nel 1981. Annibali ha perseguito con attenzione il ripensamento figurale tra Donatello, Rosso e Giacometti, virando con attenzioni segrete al Melotti rosminiano. Tra l’effervescenti sculture dell’ultima stagione, con particolare interesse si impongono i grandi disegni. Autentici spartiti cromatico-iconologici, dove la figura svapora dentro l’incrocio di una “pittura disegnata”. Altresì, all’opposto in apparenza una sorta di scultura-istallazione realizza la scenografica “azione” con “Il mare, il ritorno”, dalla banchina di San Benedetto a Riva Malfizia, e propone un’autentica sacra rappresentazione del tempo e dell’attesa, del viaggio e del “ritorno”. Tale disposizione scultorea in quanto azione istallata si rende equivalente dei grandi disegni. Infatti sulla superficie della carta intelata abbiamo la medesima logica della scultura usata come istallazione. Si riempie lo spazio non con la localizzazione degli elementi, ma si realizza con gli elementi medesimi- scolpiti o raffigurati, in bronzo o dipinti a matita – un campo dei tempi in andirivieni tra passato e futuro, negli incroci significanti dei valori figurali che rompono la datiti figurale per imporre la loro segreta significazione di madrigale del pensiero: Paolo Annibali tange la riserva concettuale del proprio bagaglio culturale, ma si riserva la permanente dizione della figurazione rinnovata, celebrata come spartito musicale.
Qualche secolo certamente passò. Egli, il dormiente, l’ispirato, scosse appena il capo Come per frugare qualcosa che gli aleggiasse Fra le palpebre chiuse e l’anima. Si destò
E, come negli antichi dei, l’umano e il divino erano una cosa sola, così l’unità delle figure di Annibali si manifesta in questa duplice istanza. La drammaticità che questa provoca si risolve in una concezione vitalistica delle forme: da un lato evoca la visionarietà protoromantica che da Novalis scende fino a Humboldt e a Luden, dall’altro aspira ad una coscienza di un ethos popolare che accoglie, nel suo abbrivio, le infinite connessioni che da Turner arrivano all’onirismo sensuale e fantastico di un Fussli.
In realtà, i personaggi di Annibali ruotano attorno ad una concezione del mondo tra visionaria e pragmatista, per cui le fattezze umane anche se assumono sovente strane configurazioni zoomorfe, non chiedono all’osservatore uno sforzo di comprensione e di compartecipazione verso il macrocosmo degli esseri inferiori.
Il divino e il satanico – ammesso che vogliano accettarsi simili termini – si alternano e si intrecciano in modo inesplicabile, dando vita ad una serrata dialettica emozionale densa di situazioni oscure e di echi apocalittici. Quando non di echi agresti reinventato all’insegna dello straniamento o del ribaltamento dell’ordine consueto dei rapporti uomo natura, natura uomo.
L’imperfetto, dunque, come tutti i mostri, è duplice, ambiguo e labirintico: è oggetto del privilegio penoso dell’arte così come epifanizza il male connaturato alla struttura ontologica del mondo. Dinanzi ad una situazione del genere Annibali non manca di fare appello all’ironia che sdrammatizza e, allo stesso tempo, fornisce la misura dell’inanità dello sforzo teso a conciliare infinito e finito, ragione e tenebre, esistenza e universo delle spiegazioni.
Egli trasferisce la complessità problematica di ciò che è contingente ed attuale in quella dimensione di attuale inattualità che dell’arte è propria. È per questo che le sue terrecotte ci sembrano appartenere non ad un tempo definito e definibile, ma ad una temporalità che insieme si rinnova e si ripete. Quella che ho chiamato la vocazione classicistica di Paolo Annibali non cerca infatti fondamenti oggettivi, ma trae alimento da un ordine che è certamente di ragione, da una misura del pensiero e del sentimento che potrei definire pascaliana. La lucidità plastica, la limpidezza con cui Annibali conduce la narrazione delle sue parabole, la stessa levigatezza e compattezza della materia su cui sembrano calare le patine di tempi immemorabili ma che sentiamo tuttavia viva e vibrante, sono testimonianza esplicita di questo ordine interiore a cui si riconduce ogni tensione naturalistica, immaginaria o speculativa dell’autore senza per questo perdere di forza o, per dirla in termine estetici, di espressività poetica.